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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

Le Sirene

  parte ottava

 

 

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Col tempo il tarlo evemeristico le svuotò del sacro, e per i Greci esiliati nella ragione divennero metafora dell’abilità oratoria (si cfr. anche il celebre Cato Latina Siren di SUET. gramm. 11, 2) o della libido cognoscendi: cosí Cicerone in una brano per altro affascinante del De finibus, che qui di séguito traduco.

 

È evidente che quanti coltivano lo studio delle discipline umanistiche non tengono in alcun conto né la propria salute né la cura degli affari di famiglia e si sobbarcano fatiche d’ogni genere, presi come sono dall’amore della conoscenza scientifica per se stessa, e pagano con un indefesso impegno di ricerca il piacere che traggono dall’apprendere. A questo proposito aggiungerò che, a parer mio, Omero volle suggerire una riflessione simile nei versi da lui dedicati al canto delle Sirene. Non risulta infatti dalla lettura che esse riuscissero a distogliere dal cammino quanti passavano per nave accanto a loro grazie alla dolcezza della voce o ad una speciale novità e versatilità del modo di cantare, bensí per il fatto che affermavano di saper molte cose, onde è lecito concludere che gli uomini finivano aggrappati al loro scoglio per il desiderio di sapere. Cosí infatti esse invitano a raggiungerle Ulisse (avendo volto in latino alcuni luoghi omerici, fra cui questo, riporto di séguito la mia traduzione):

 

O tu, gloria greca, piega suvvia della nave la corsa, Ulisse,

che possa ascoltare ed apprendere i nostri canti.

Perché mai nessuno passò veleggiando l’azzurra distesa

che tosto non s’arrestasse conquiso dalle dolci note

poi, soddisfatto il cuore bramoso colla piú varia dottrina,

piú dotto librasse sull’acqua il cammino alle patrie contrade.

Noi dell’atroce contesa di guerra, noi della strage sappiamo

che l’Ellade per volere dei numi a Troia diresse:

ogni traccia ci è nota di ciò che nell’ampio globo si compie.

 

Omero si rese ben conto che la narrazione sarebbe apparsa inverosimile se un eroe cosí acuto fosse stato irretito e vinto da una canzonetta, perciò fece promettere alle Sirene la conoscenza, che per un uomo avido di sapere quale Ulisse è del tutto naturale risulti piú desiderabile del ritorno in patria.

CIC. fin. V 48-49

 

Cicerone tradusse da Omero e dai tragici, soprattutto, come osserva lui stesso (Tusc. II 26), per aver citazioni da inserire nelle opere filosofiche. Altri esempi: div. II 63 sqq. (Omero) e Tusc. II 20 (Sofocle). Si può confrontare coll’originale (HOM. Od. XII 184 sqq. = supra Seconda parte) il frammento del testo, che a me non pare tanto infelice, per lo meno non quanto la vulgata (QUINT. IX 4, 41; SALL. in Cic. 5) descrive i temptamina poetici di Marco Tullio.

Oppure divennero puro ornamento d’oggetti d’uso, allegoria primitiva di frangenti pericolosi per la navigazione (Suid. s. v. Seirễnas):

 

“Sirene”: donne dalla voce armoniosa secondo l’antico mito greco, le quali stando su un isolotto infondevano nei naviganti di passaggio tramite la loro voce un tale godimento, che essi s’arrestavano là sino alla morte. Dal busto in giú avevano aspetto di passeri, la parte superiore era di donna. I mitologi scrivono che le Sirene sono piccoli uccelli dal viso di femmina, che raggirano i naviganti di passaggio e allettano le orecchie degli ascoltatori con arie puttanesche; tale canto non trova alcun termine onesto al piacere se non quello della morte. La storia vera comunque è questa: esistono dei tratti costieri stretti fra dirupi in cui la pressione dell’acqua crea un suono pari ad una voce acuta; quando i piloti di passaggio l’odono, affidano le loro vite alla corrente e periscono con la nave e con tutto l’equipaggio. Le Sirene e gli Onocentauri ricordati da Isaia [supra Prima parte] sono demoni, il cui nome qui serve ad indicare la desolazione di una città incorsa nell’ira del Signore. I Siri dicono che sono cigni in quanto questi uccelli, dopo essersi bagnati, si levano in volo per l’aria dall’acqua cantando una dolce melodia. Giobbe [ibid.] dice: “Divenni fratello delle Sirene, compagno dei passeri”, ossia “canto le mie disgrazie come le Sirene”. “Passeri” per lui sono quelli che noi chiamiamo “struzzi”, ossia degli uccelli con zampe e collo d’asino. E nell’Antologia Palatina [V 241 PAUL. SILENT.] si legge: “Quel parlare piú dolce delle Sirene”. I loro nomi sono: Telsiepia, Pisinoe e Ligea, l’isola in cui abitavano si chiama Antemusa [Tarza parte].

 

O addirittura femmes de petite vertu che “spolpavano” i marinai negli angiporti.

 

Le Sirene.

Il mito racconta che fossero esseri misti, con zampe d’uccello e corpo di donna, e causassero la rovina dei naviganti che a loro s’accostavano. Erano in realtà cortigiane assai abili nell’uso degli strumenti musicali e dalla voce soave, bellissime, che consumavano le sostanze di chi le frequentava. La storia delle zampe d’uccello deriva dal fatto che, quando le loro vittime avevano esaurito il patrimonio, le abbandonavano in tutta fretta [!].

HERACL. incred. 14.

 

Le Sirene secondo il mito furono tre, in parte fanciulle in parte uccelli, figlie del fiume Acheloo e della musa Calliope. Una di esse cantava, un’altra sonava il flauto, la terza la lira. Abitarono dapprima presso il Capo Peloro [cfr. Quarta e Settima parte], poi nell’isola di Capri [invero di fronte: ibid.] e irretivano i naviganti col canto spingendoli al naufragio. In realtà si trattava di prostitute che, per il fatto d’aver ridotto all’indigenza i clienti che passavano nei loro paraggi, furono allegoricamente rappresentate come esseri che li facevano naufragare. Ulisse sfidandole con successo ne causò la morte.

SERV. in VERG. Aen. V 864.

 

Infine arrivarono i Christiani, che vi lessero l’incarnazione delle lusinghe mondane, in particolare, ossessionati com’erano, del sesso: in fondo, erano femmine.

Rimaneva però un dettaglio imbarazzante: se erano scogli o puttane, come spiegare che “intorno una gran pila d’ossa d’uomini putrescenti, sopra la pelle s’aggrotta.” (Od. XII 45-6)? Serví la stessa giustificazione dei Centauri:

 

Aristofane afferma che consunti dal canto, venendo meno a poco a poco morivano, Aristarco invece indica la mancanza di mezzi di sussistenza

(schol. Od. XII 43 Q).

 

Si notino i nomi dei due grandi eruditi dell’epoca ellenistica, che fu in effetti la culla di queste desolanti razionalizzazioni. Ma la descrizione di Omero suggerisce a noi moderni, che abbiamo un immaginario sostanzialmente cinematografico, un’immediata connessione coi corpi svuotati delle vittime di vampiri o altri mostri visti in centinaia di B movies. Perché proprio questo erano probabilmente in origine le Sirene, dèmoni, meridiani o lunari (SIECKE, Hermes der Mondgott, 1908), o anime morte (che i Greci si figuravano tra l’altro come uccelli: DAREMBERG-SAGLIO DAGR IV. 2, 1354b), le quali succhiavano la vita dei viventi per continuare a vivere loro stesse. L’ambientazione costiera, pur cosí importante per il passaggio medievale dalla forma d’uccello a quella di pesce, come dirò nella prossima scheda, è dunque del tutto casuale, e viene dal fatto che il nostos di Ulisse si faceva per mare.

 MISERRIMUS