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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

Le Sirene

  parte settima

 

 

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In origine erano ragazze, ma furono trasformate in mostri da Cerere per aver trascurato il compito loro affidato di sorvegliare Proserpina, impedendone il ratto.

 

Le Sirene, figlie del fiume Acheloo e della musa Melpomene [cfr. prima parte], dopo il ratto di Proserpina andarono errando sinché non giunsero nel paese sacro ad Apollo [Delo, cfr. SERV. in VERG. Aen. III 79] e qui per volontà di Cerere, dato che non avevano saputo proteggerne la figlia, furono trasformate in esseri alati. Gli era stato predetto che sarebbero rimaste in vita finché nessuno che le avesse udite cantare fosse passato oltre, perciò il loro destino si compí quando Ulisse superò per nave coll’astuzia gli scogli su cui risedevano ed esse per questo si precipitarono in mare [cfr. LYCOPHR. Alex. 712 sqq., tradotto qui oltre; Arg. Orph. 1284 sqq.: quinta parte]. Il luogo dove si uccisero, che si trova fra la Sicilia e il continente italiano [si cfr. il brano di Strabone trad. infra], prese da loro il nome di Rupi delle Sirene [si v. la Piccola appendice cartografica della Quarta parte].

HYG. fab. 141.

 

Parve però per lui la pena meritata
perché svelò il segreto, ma voi, figlie d’Acheloo, perché
piume d’uccello e zampe avete, quando di fanciulla è il vostro viso?
Forse perché, quando Proserpina coglieva fiori a primavera,
voi, dotte Sirene, foste fra le amiche della scorta?
Dopo averla cercata invano in ogni terra,
súbito, che il mare vi scorgesse anch’esso ansiose di trovarla,
chiedeste di volare sopra il flutto col remeggio
delle ali e pronti al desiderio aveste i numi e vedeste
d’improvviso biondeggiar di penne il vostro corpo.
Ma perché il canto nato per la gioia dell’ascolto,
perché dote sí grande scomparendo la lingua non svanisse,
volto di donna vi fu lasciato e voce umana311.

OV. met. V 551-563.

 

 

Il passo ovidiano proviene dal racconto del ratto di Proserpina. “Lui” è Ascalafo, figlio d’Acheronte e d’Orfne, una ninfa infernale, e merita la pena d’esser trasformato in gufo perché rivela che la dea, durante la forzata permanenza oltretombale, aveva mangiato sette chicchi di granato, violando in tal modo il decreto delle Parche che solo chi non abbia toccato alcun cibo infero possa tornare nel mondo della luce. Come si vede, la motivazione della metamorfosi non è secondo Ovidio punitiva, quale ce la presenta invece Igino nell’estratto precedente.

 

Strabone, discutendo della credibilità geografica di Omero, giunto al problema della collocazione italica dei vagabondaggi di Ulisse, in sostanza suggerisce una “terza via” tra quanti prendevano per oro colato tutto ciò che il poeta aveva scritto e quanti come Eratostene gli negavano ogni credito, sostenendo che “Omero, convinto che codeste regioni fossero il teatro delle peregrinazioni di Odisseo ed accolta quest’ipotesi come un fatto certo, avesse elaborato la storia in maniera poetica” (I 2, 11): le due “ipotesi” di cui si parla nel testo che segue sono dunque quella dei creduloni (la “seconda”) e la sua intermedia (la “prima”). Osserviamo en passant che dal punto di vista di noi moderni non si tratta tanto dell’ovvio rifiuto della sterile polemica straboniana contro il grande Eratostene, quanto di un’ormai inconciliabile diversità ermeneutica: entrambi infatti sono convinti dell’eteronomia dell’arte, solo che il primo rifiuta Omero perché crede che non possa insegnare nulla, il secondo lo difende dicendo che nei dovuti modi può, mentre noi, a parte alcuni nostalgici, siamo ormai convinti che la poesia non debba insegnare proprio nulla a nessuno.

 

Eratostene dal canto suo erroneamente si schiera contro entrambe le ipotesi, negando la seconda in quanto tenta di polemizzare con rappresentazioni del tutto fittizie su cui non vale la pena di far lunghi discorsi, e negando la prima in quanto dichiara inetto ogni poeta e ritiene che la loro ignoranza dei luoghi e delle tecniche non conduca alla virtú; in altri termini, poiché Omero ambienta il suo racconto parte in luoghi non fittizi, quali Troia, l’Ida e il Pelio, parte in luoghi fittizi, quali quelli in cui colloca le Gorgoni o Gerione [l’Ida micrasiatico: Kaz Daği, ad es. Il. II 821 e l’Ida cretese: Ídhi o Psiloríti, ad es. Il. III 276. Il Pelio è il moderno Óros Pílion nella penisola di Magnesia in Tessaglia: ad es. Il. II 744. Le Gorgoni in Il. V 741. Di Gerione nessuna occorrenza, forse si riferisce ad un’opera perduta del Ciclo], egli sostiene che pure quelli citati nelle peregrinazioni di Odisseo siano della stessa natura, e che quanti invece affermano che non sono inventati ed esistono siano convinti d’errore dal fatto stesso che discordano fra loro: ad esempio alcuni pongono le Sirene al Peloro [Capo Faro poco a nord di Messina], altri nel promontorio delle Sirenuse, che dista dal Peloro piú trecentosettanta chilometri; tale promontorio sarebbe uno scoglio tricuspide che separa il Golfo di Cuma dal Golfo di Posidonia. Ma codesto scoglio non è tricuspide né in alcun modo si eleva in altezza a formare un picco, bensí si tratta di un braccio di terra lungo e angusto che si protende dalla zona in prossimità di Sorrento sino allo stretto di Capri, e su di un lato della sua scoscesa formazione ospita il tempio delle Sirene, sull’altro che s’affaccia al golfo di Posidonia tre isolotti costieri disabitati e petrosi che si chiamano le Sirene, e proprio in corrispondenza dello stretto il tempio di Atena, da cui prende nome anche il braccio stesso [cfr. la Piccola appendice cartografica nella Parte quarta]. E poi, anche se gli autori che hanno trasmesso le loro ricerche su questi luoghi non concordano, non si possono immediatamente rifiutare tutti i loro risultati, al contrario vi sono casi in cui è preferibile dar credito alle loro argomentazioni, almeno nel complesso. Facciamo un esempio: se dall’indagine risulterà che le peregrinazioni sono avvenute fra la Sicilia e il continente italico, e se in questo spazio vengono situate le Sirene, chi ribadisce che si trovano al Peloro può pure discordare con chi le pone nelle Sirenuse, ma entrambi non discorderanno da un terzo il quale dica che stanno fra la Sicilia e il continente italico, anzi! sarà fonte di maggior credibilità il fatto che, pur non indicando tutti il medesimo posto, tuttavia nessuno si discosti dalla zona fra la Sicilia e il continente italico. Se poi si vuol aggiungere che a Napoli si mostra la tomba di Partenope, una delle Sirene [ibid.], ne verrà ulteriore verisimiglianza perché un terzo sito è stato citato nella discussione. Ora che nel golfo chiuso dalle Sirenuse, o golfo di Cuma come lo chiama Eratostene, sorga pure la città di Napoli, ci rafforza nella convinzione che le Sirene furono in quei luoghi, anche se il poeta non poteva avere una conoscenza minuta dei fatti, né tanto meno noi gliela richiediamo, pur non essendo per questo autorizzati a concludere che egli compose il suo poema senza in alcun modo indagare dove e come avvennero le peregrinazioni di Odisseo.

STRAB. I 2, 12-3.

 

Licofrone "chiama 'centauricide' le Sirene perché i Centauri, in fuga da Eracle, dalla Tessaglia giunsero all’isola delle Sirene, e stregati dal loro canto morirono" (schol. LICOPHR. 670 s. 4). E visto che ne abbiamo fatto cenno, ecco la traduz. it. del passo dell'Alessandra in cui si parla più diffusamente delle Sirene.

 

Causerà poi la morte alle tre figlie del figlio di Teti,
cui la melodica madre il sigillo impresse del canto,
che con guizzo suicida dal culmine d’una rupe
nel flutto tirrenio a volo s’immergeranno,
dove le precipiterà l’amaro filo dalle Parche ritorto.
L’una resa dall’onda il fortilizio accoglierà
del Falero ed il Glanide che colle fluenti irriga la terra,
là dove i locali erigendo il sepolcro della fanciulla
con libagioni e sacrifici di buoi annuali
Partenope celebreranno, la dea alata.
Sulla costa che nell’Enipeo si protende
Leucosia scagliata sopra lo scoglio
che da lei prese nome lo terrà a lungo, dove l’Is rapinoso
e il Lari vicino sfociano le loro onde.
Ligea dal mare verrà trascinata a Terina
recendo il flutto, lei poi i naviganti
sul lido sassoso seppelliranno
vicino ai gorghi dell’Ocinaro:
bagnerà la tomba l’Ares cornuto colle sue fluenti,
astergendo la casa della fanciulla volante colla sua linfa.
E piú tardi ancora alla prima delle sorelle
il governatore dell’intera flotta di Mopsopo
apparecchierà, al vaticinio obbedendo, fra i marinai
una corsa di fiaccole, che poi ingrandirà il popolo
dei Neapolitani, che presso il riparo non colto dal flutto
del porto di Miseno abitano un poggio scosceso168.
LYCOPHR. Alex. 712-37.

 

Come si vede il poema, cui le Cariti furono assai avare di sorrisi, ha bisogno di una traduzione della traduzione. In un “tempo drammatico” antecedente il ratto di Elena un servo riferisce a Priamo le visioni profetiche della figlia Cassandra-Alessandra, che si estendono nel futuro sino ai ritorni degli eroi achei, tra cui quello di Odisseo, che tra l’altro “causerà la morte” (si cfr. quanto trad. qui sopra) delle tre Sirene, figlie di Acheloo, a sua volta figlio della titanide Teti (ACUSIL. fr. 2F1 FGrH JACOBI), e di una Musa (Melpomene o Calliope: Terza parte, ma Licofrone non specifica). Il cadavere della prima, Partenope, verrà gettato dal mare in un luogo della costa campana (secondo la tradizione moderna Pizzofalcone o Castel dell’Ovo: si v. la Piccola appendice cartografica già più volte cit.) che da lei prenderà il nome, qui indicato con una faticosa perifrasi: è il fortilizio fondato dal tiranno siculo Falero (schol. Lycophr. 717), “presso” cui scorre il fiume Glanide ossia il Clanio (VERG. geor. II 225), un corso d’acqua nel territorio nolano; storicamente la colonia di Partenope fu fondata da Cuma intorno al 650 circa (LIV. VIII 22), oppure dai Rodii nel IX sec. (STRAB. XIV 2, 10), poi incorporata con la denominazione di Palaepolis, ossia la “Città vecchia”, nella rifondazione cumana di Neapolis, la “Città nuova”, il 470 circa (tra l’altro, poiché a codesta rifondazione partecipò anche Atene, alcuni pensano che proprio a ciò alluda il “fortilizio del Falero”, che era uno dei bacini del Pireo: STRAB. V 4, 7; CIACERI, Storia della Magna Grecia, vol. I, La fondazione delle colonie greche e l’ellenizzamento di città nell’Italia antica, 1924). Leucosia, come indica l’assonanza, finisce con tutta probabilità sull’isolotto di Licosa (“chiama scoglio l’isola”: schol. 722) sotto Paestum, di fronte al Promontorio Enipeo, dove sorgeva un Poseidonion (schol. 724), oggi Punta Licosa al confine meridionale del Golfo di Salerno, onde l’Is e il Lari non possono essere che il Sele e il Calore. Quanto a Ligea:

 

"Terina": città dell’Italia [nei paraggi di S. Eufemia Lamezia?] presso il fiume omonimo [il torrente Cantagalli?], fondata dai Crotoniati secondo Flegonte [fr. 257F31 FGrH JACOBI]. Alcuni però sostengono che sia l’isola su cui fu gettato il corpo della Sirena Ligea, come scrive Licofrone: "A Terina per mare verrà portata Ligea".

HEROD. pros. cath. III 1, 258

(testo identico presso STEPH. BYZ. ethn. s. v. Térina 617).

 

 

Per una collocazione diversa da quella licofronea si veda la didascalia della prima immagine della Piccola appendice cartografica; qui aggiungo solo che l’Ocinaro è il Savuto (per altri il San Biase o il Bagni). Quanto all’Ares, è una faccenda piú complicata: avendo il Lenormant pubblicato nello scorso secolo una moneta terinese in cui era a parer suo raffigurata la dea di una fonte sacra chiamata Anghe, che forse era invece il nome dell’incisore, il Millingen volle poco dopo cosí correggere l’Ares del testo; riporto l’impeccabile osservazione di Ciaceri (L’Alessandra di Licofrone. Testo, trad. e comm., 1901):

 

I fiumi e i torrenti davano agli antichi l’immagine del toro, e quindi le divinità fluviali erano rappresentate come tori colla faccia umana o come giovinetti col capo adorno di piccole corna. E qui il poeta immagina l’Ocinaro come dio fluviale, che accarezzi colle sue acque il sepolcro di Ligea.

 

Infine, perché melius est abundare quam deficere, si torna a Partenope raccontando l’aition di una lampadedromia praticata dai Napoletani, che risale al tempo in cui un ammiraglio ateniese (Mopsopo fu un re mitico dell’Attica: STEPH. BYZ. ethn. 458), secondo lo Scoliaste (ad 733) Diotimo durante la guerra di Sicilia del 433, la istituí per ordine di un oracolo; Miseno, che prese nome dal trombettiere di Enea annegato al Capo omonimo (VERG. Aen. VI 241 sqq.), stà nei Campi Flegrei.

 

 MISERRIMUS